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La percezione della realtà PALESTINA 2013

di gaetano
percezione della realtà

La percezione della realtà
PALESTINA 2013

Annamaria Bruni

Durante la pandemia ho spesso riflettuto sul concetto della percezione della realtà.
Ero molto, molto, molto emozionata quando sono andata nella Striscia di Gaza per la prima volta con il convoglio umanitario “Welcome to Gaza Convoy”.
All’arrivo, alle sette di sera, cercavo di intravedere i primi segni di un conflitto lungo e tortuoso.
Il buio non aiutava.
Girando per la città l’indomani ho subito notato pochissime tracce di palazzi distrutti, niente torri e filo spinato ovunque, chiaramente niente colonie, smantellate tutte nel 2005.

Al mercato, in una calda mattina di luglio, la gente con frenesia faceva acquisti, le donne trascinavano bambini (una quantità innumerevole) che strillavano, correvano, giocavano.
Venditori ambulanti che fumavano e bevevano tè, chiacchierando e ridondo.
Ogni tanto, negli spostamenti tra un palazzo e l’altro, intravedevo degli spazi vuoti.
Come dei parcheggi ma senza macchine con cumuli di sabbia.
Mi chiedevo come mai.
Un anno prima mi aveva impressionato la quantità di edifici a Beirut, anche in centro, dilaniati e martoriati da 15 anni di guerra civile e conflitto con Israele.
Bellissimi edifici in stile liberty completamente abbandonati anche in pieno centro, che ti piangeva il cuore a vederli ridotti così, tanto erano belli e volevi immaginarteli restaurati.
Da Gaza quindi mi aspettavo segni evidenti, una città distrutta: la situazione in West Bank era pesantissima, si vedeva, si sentiva, si respirava, qui mi sembrava di stare in una città egiziana. La prima percezione.

Parlando con una ragazza Gazawi, scopro che quegli spazi vuoti erano dei palazzi bombardati e collassati che, non potendo essere ristrutturati, erano demoliti pezzo per pezzo e riciclati per altre costruzioni.
Perché a Gaza, mi spiega la mia accompagnatrice, far entrare qualcosa è sempre un terno al lotto, il valico con l’Egitto chiude e apre a casaccio e trasportare certi materiali via tunnel è complicato.
Si tende a riciclare.
Bè questo è positivo, dico io.
E’ positivo riciclare dice lei, ma quando devi avere assistenza sanitaria specifica o delle medicine particolari e il confine è chiuso non è propriamente una figata.
Concordo.
Siamo in Ramadan, e all’ Id al-fitr le famiglie si riversano in spiaggia, a godersi il tramonto e il cibo in grandi quantità, dividendolo con amici, parenti e sconosciuti.
L’interruzione del digiuno è un momento di gran festa, dove rimedi sempre un succo e un dolcino che non sia mai tu dica di no.
Sembra tutto così normale. Il tramonto, il mare. La felicità della festa.

Quel mare però è una prigione d’acqua che ricorda giornalmente ai Gazawi che vi si possono tuffare per godere delle sue acque, ma non lo possono attraversare o pescare oltre tot miglia, perché le navi militari israeliane ogni giorno controllano se sfori.
E se accade, senza cooperanti internazionali a bordo (ma a volte anche con quelli), ti fanno fare un bell’ inchino.
Guardo i bambini e sono uno spettacolo, sempre allegri, sempre curiosi come tutti i bambini del mondo, e cosi sembrano le loro famiglie.
Fino a quando non prendi una seggiolina, ti siedi, e ti raccontano la loro vita fatta di lutti e lacrime.
Ricordo una signora che coltivava menta nel suo giardino, che aveva un sacco di figli.

Era molto emozionata che cosi tante persone, tra attivisti, giornalisti, video maker e fotografo fossero interessati a lei e alla sua storia.
Qualcuno le chiede di raccontarla e si scopre che aveva perso marito e due figli in un bombardamento, insieme alla casa.  Una storia tristissima, come tante.
Prende le foto dei figli e del marito e le mostra, mentre lo fa il suo sorriso non si spegne, tale è l’emozione per questi sconosciuti che domandano e domandano.
Le dobbiamo dire noi, – Signora, perdoni la nostra richiesta, ma vorremo che rimanga seria mentre mostra queste tre foto e la filmiamo perché non darebbe il giusto senso del dolore che la sua storia possiede. –

Quel sorriso avrebbe tratto molte persone in inganno, perché chi soffre pare sempre che debba dimostrarlo 24 h su 24 altrimenti non è reale, e vuol dire che non si soffre abbastanza.
Avrebbe viziato la percezione della realtà.
Una visita veloce a Gaza, quando non ci sono i botta e risposta tra Hamas e Israele, non sempre permette di capire il dolore e la sofferenza di questa prigione a cielo aperto, e che la potresti scambiarla per una città normale.
Una striscia di terra normale.

Perché gli anziani sono rassegnati alla loro prigionia e i giovani lottano con i pochissimi mezzi che possiedono.
Di notte, tra un black-out e l’altro, perché le forniture di gasolio dentro la Striscia sono limitate, il firmamento sembra particolarmente terso.
Che strano guardare il cielo pieno di stelle a Gaza, l‘universo sembra lì a portata di mano ma non riesci nemmeno a immaginarlo.

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Annamaria Bruni

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