Home StoriePEZZI DI STORIA Il pullman bruciato LAOS 2003

Il pullman bruciato LAOS 2003

di gaetano

Il pullman bruciato
LAOS 2003

Centosessanta chilometri a nord di Vientiane. Lungo la Statale Tredici.

La piccola Vang Vieng è in una pittoresca posizione su un’ansa del fiume Nam Song. Intorno colli, montagne, un paesaggio carsico che segue la riva occidentale del fiume.

Grotte e gallerie abitate da spiriti soprannaturali. La Thàm Jang, un tempo usata come rifugio per difendersi dai predoni cinesi dello Yunnan, la Tham Pha Puak, circondata da carsiche scogliere rosse.

Dormiamo alla Nana Guest House, tre dollari la notte, una stamberga ad un centinaio di metri dalla stazione degli autobus; due piani moderni e spartani, la scala a chiocciola per salire in camera, la principale arteria della città davanti al cancello d’entrata.

Il proprietario ci presta il suo motorino e usciamo, andiamo verso nord. Dalle parti di Pak Pok ci fermiamo a chiacchierare con un buffo ometto che vende acqua sotto un ombrellone, intorno trotterellano maiali e galline. Verso sera torniamo in città. Autocarri pieni di militari ci sorpassano. Qualcuno ci indica e ride.

Il sole tramonta. Dato l’alto numero di occidentali con lo zaino firmato che vengono da queste parti per fare rafting sul Nam Song, i ristoranti e le bettole offrono solo dozzinale cucina anglosassone. L’unico posto dove mangiare cucina laotiana è il mercato ma chiude alle diciassette. Andiamo al Khamla Restaurant dove ci danno maiale alla laotiana con contorno di omelette europee e bibita tipicamente americana al latte. Uno schifo.

Vaghiamo per le strade deserte mentre tutti gli altri occidentali si riversano intorno ai due-tre locali dove anche alla notte si beve birra e si ascolta brutta musica pop.

La luna splende, il luogo è magico e meraviglioso. Sulla strada passano colonne di automezzi militari.

Partiamo presto.

Saliamo su un grosso autobus sgangherato coi sedili in legno, sacchi di riso, decine di contadini laotiani che urlano e fumano sigarette puzzolenti. L’autobus dei polli.

La natura è magnifica: montagne ricoperte di mille strati diversi di verde, un cielo azzurro che diventa nuvolo in un secondo e poi torno azzurro.

I nostri compagni di viaggio sono simpatici, la signora seduta di fronte a noi continua a sorriderci e con occhi imploranti ci fa capire di fare attenzione poiché i nostri piedi sono appoggiati sui suoi sacchi di riso.

Fino a Bang Jiang tutto bene, poi arriva il vero, unico, indistinguibile acquazzone tropicale. L’autobus fa la doccia e procede a fatica lungo i tornanti. Poi succede qualcosa, l’autista rallenta, non capiamo. I nostri vicini dicono “Hmong, Hmong”. L’autobus procede lentamente in mezzo alla vegetazione. Tommy estrae la macchina fotografica ma la signora del riso, con i suoi occhi parlanti, gli fa capire che è meglio se la rimette via.

Attendiamo.

I Hmong costituiscono una delle popolazioni indigene più numerose della regione tra la Thailandia, il Laos, il Vietnam e la Cina. In Cina vivono circa nove milioni di Hmong, che là si chiamano Miao. Nel Laos costituiscono uno dei gruppi etnici maggiori della popolazione montana, che a sua volta costituisce più della metà della popolazione complessiva. Dei cinque milioni di cittadini della Repubblica Popolare Democratica del Laos circa l’otto per cento sono Hmong.

A partire dagli anni sessanta i Hmong sono stati sistematicamente assoldati dai servizi segreti USA, la CIA, per combattere contro il movimento Pathet Lao e impedirgli la presa di potere. Fino a quarantamila Hmong sono stati per certi periodi nel libro paga della CIA, ma hanno pagato un caro prezzo per questa alleanza. Fino a metà degli anni settanta almeno trentamila Hmong sono morti durante i continui combattimenti con il Pathet Lao.

Le forze di sicurezza laotiane continuano a cercare gli ultimi Hmong nei loro nascondigli e a “spezzare ogni forma di resistenza”. I Hmong nascosti nella foresta però non sono più i combattenti di ieri, ma sono per la maggior parte donne, bambini e appartenenti a una generazione che non ha mai partecipato direttamente ai combattimenti degli anni passati.

Per non essere scoperti dai soldati, i Hmong che spesso vivono nella foresta da oltre trent’anni, non possono né coltivare qualcosa né accendere fuochi. Si nutrono esclusivamente di piante e radici. A loro manca tutto, dal cibo ai medicinali. Nell’impossibilità di curarsi le ferite si trovano spesso costretti a amputarsi parti del corpo. Molti Hmong muoiono di fame, di affaticamento e di malattia.

E le forze di sicurezza laotiane continuano a dargli la caccia. E’ una guerra spietata. Una guerra a cui assistiamo.

I militari sono immobili sotto la pioggia, i mitragliatori in spalla. Fanno fermare l’autobus, controllano i documenti dei laotiani. Poco distante, sul bordo della strada, la carcassa di un pullman bruciato. Scopriremo più tardi che è opera dei guerriglieri Hmong, che anche se poco numerosi e affamati continuano la loro micro guerriglia.

Sono scesi dalla montagna, bombe a mano e kalashnikov, hanno fatto fermare il pullman, hanno ammazzato gli occupanti (l’autista, i maestri e quattordici scolari) e poi hanno dato fuoco all’automezzo. Adesso guardiamo la carcassa bruciacchiata, un militare fa cenno di ripartire.

Fra quelle montagne, da qualche parte, ci sono donne amputate, malnutrite e bambini con lo stomaco gonfio e poche speranze di arrivare all’età dell’adolescenza. Su quelle montagne, da qualche parte, ci sono anche assurdi guerriglieri che ogni tanto scendono a valle e massacrano senza pietà giovani scolari laotiani… un odio senza fine.

Proseguiamo terrorizzati. Il pullman va su e giù per montagne maestose, e poi arriviamo.

Luang Prabang è bellissima.

Ancora relativamente poco toccata dalla globalizzazione, anche se in verità nei bar del centro è un vai e vieni di ragazzi anglosassoni con lo zaino firmato e l’indistinguibile maglietta della Beer Lao, Luang Prabang mantiene la sua aurea magica.

Situata fra il malsano e possente Mekong e il Nam Khan, la città è suddivisa in piccoli agglomerati di case al cui centro sorgono tempi buddisti. Il Wat Xieng Thong ha cinquecento anni, il Wat Mai Suwannaphumaham qualcuno di meno, nel cortile del Wat Aham ci sono i banani secolari, se si sale sul colle di Phu Sì si può ammirare il Wat Thammonthayalan. Templi ovunque, stupa a forma di bulbo, di cocomero, di nocciola, monaci e monache, silenzio.

Lo stile architettonico dei templi di Luang Prabang ricorda lo stile siamese della Thailandia settentrionale, i tetti sono disposti su più livelli e in alcuni casi arrivano al suolo. I laotiani li definiscono “le ali di chioccia che proteggono i propri pulcini”.

Al Talat Dala, nel cuore della città vecchia, mangiamo salsicce piccanti e beviamo caffè alla laotiana. Intorno a noi occhi montanari, liquidi e penetranti. Qualcuno ci offre sigarette, qualcuno vuole vedere i nostri libri. Il tramonto cade sul lato del Mekong. In lontananza un bufalo si butta in acqua.

Bloccati qui, in questa città incantata per colpa dell’odio senza fine, della guerriglia dimenticata, dell’incapacità di dialogare.

Ripenso al pullman bruciato, ai bambini carbonizzati. Ripenso alle colonne di automezzi militari incontrati a Van Vieng.

Il bufalo risale a riva e, languidamente, si stende sulla fanghiglia, ignaro, inconsapevole.

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