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Riflessioni da Belgrado SERBIA 2011

di gaetano

Riflessioni da Belgrado
SERBIA 2011

Nel parco della Cittadella di Kalemegdan, a Belgrado, fra le bancarelle di ambulanti che, sotto gli alberi, vendono souvenir, icone, foto e ninnoli delle epoche passate, cerco una panchina dove sedermi per leggere Belgrade Insight, il giornale gratuito che viene dato all’arrivo all’aeroporto Nikola Tesla.

Trovo una panchina fra il chiosco di un’anziana e candida signora che vende sciarpe della Stella Rossa, borse di cuoio della Seconda guerra mondiale, fotografie del Maresciallo Tito e adesivi con la bandiera dei cetnici, e un uomo mingherlino che vende migliaia di spille dell’epoca socialista: commemorazioni, anniversari, ritratti, simboli; tutto il meglio dell’iconografia della Jugoslavia. Unica nota stonata in questo piccolo allestimento di nostalgia è un’improbabile spilletta del Fronte Polisario che inneggia all’autodeterminazione del popolo sahrawi.

Sul giornale c’è un articolo sui lavori in corso sul ponte di Gazela, la vendita all’asta dei braccialetti della pop-star Ceca, analisi sul cambiamento climatico, cronaca degli ultimi negoziati svoltisi a Bruxelles fra la delegazione serba e quella kosovara. Pare che si siano raggiunte intese sull’accesso ai registri dello stato civile, sul riconoscimento della laurea e sulla mobilità delle persone. Intese dal grande valore simbolico, ma con pochissime conseguenze pratiche.

Mi alzo e dopo una passerella lungo l’interminabile fila di vecchi cannoni, mezzi blindati e artiglieria che divide l’entrata del Museo Militare e la Porta Stambol, mi dirigo verso le mura più settentrionali della fortezza. Sotto la Cittadella il fiume Sava sfocia nel Danubio. Un amalgama di diverse sfumature di blu. Sull’altra riva una vegetazione lussureggiante e oltre, al di là del ponte di Branko, gli alti profili di tetri palazzoni e di blok ricoperti di insegne pubblicitarie di Novi Beograd.

È fra quei tristi e anonimi palazzi che si è nascosto, fino alla cattura, Radovan Karazdic, uno degli architetti della carneficina bosniaca. Viveva sotto falso nome: Dragan David Dabic, dottore specialista in medicine alternative.

Nel luglio del 2009 è apparso sul Virginia Quarterly Review un articolo di Dimiter Kenarov dal curioso titolo “Pop Art Radovan”. Il giornalista raccontava di un suo viaggio a Belgrado dove aveva pagato per un tour organizzato, con tanto di guida, per visitare i luoghi dove aveva vissuto, i locali dove aveva mangiato, il bar dove giocava a gusle, uno dei più spietati criminali di guerra degli ultimi vent’anni. Pare che Karazdic andasse matto per il tortino alle patate della panetteria di Juria Gagarina, nel Blok 45.

Karazdic è stato arrestato nel 2008. Il processo di catarsi nazionale su quanto accaduto nella guerra degli anni ’90 era ancora all’inizio. Poi, qualche mese fa, nel maggio del 2011,

è stato scovato anche Ratko Mladić. Viveva a Lazarevo, un villaggio di tremilacinquecento persone distante cento chilometri da Belgrado, e riscuoteva la sua pensione da militare.

La manifestazione in suo sostegno ha dimostrato, speriamo non apparentemente, che le cose stanno cambiando: per Karazdic, tre anni fa, davanti al Parlamento pare ci fossero circa ottantamila persone, per Mladić i manifestanti erano sì e no diecimila, talmente pochi che gli organizzatori avrebbero potuto optare per un raduno nella più limitata piazza Republike invece di far apparire deserto lo spiazzo davanti al Parlamento. L’uomo che offriva cioccolatini ai bambini prima di sterminare i loro genitori, quella specie di figura mitica, alimentata da stampa, canzoni celebrative, video su youtube, quell’eroe leggendario riprodotto su poster, calendari, spille è diventato un ostacolo per il governo serbo. Un ingombro verso l’integrazione europea.

Ovviamente viene da pensare che senza la complicità del mondo diplomatico, serbo e internazionale, sia Karazdic, sia Mladić sarebbero stati arrestati prima. La comunità internazionale che oggi li marchia come criminali di guerra è la stessa che durante il conflitto della ex Jugoslavia non ha fatto altro che azzardare maldestramente imbarazzanti e grottesche “iniziative di pace”. La stessa comunità internazionale che ha lasciato morire, fra le migliaia, ottomila persone a Srebrenica, e che poi ha voluto fortemente che nei pressi della città venisse eretto il monumento alle vittime.

Due giorni prima della strage di Srebrenica, il generale Janvier, comandante della Forza di protezione delle nazioni unite, mangiò un gustoso agnello offertogli di Mladić. Il processo di catarsi, di ammissione di colpa, di prendersi le proprie responsabilità riguarda tutti, compreso l’occidente.

 

 

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