Home StoriePEZZI DI STORIA La baia di Abu Makhadeg EGITTO 2000

La baia di Abu Makhadeg EGITTO 2000

di gaetano

La baia di Abu Makhadeg
EGITTO 2000

Il pulmino viene a prendermi davanti al villaggio turistico.

É la solita mattina calda e asciutta. Sudo. Un giovane cliente tedesco, che non ha nessuna intenzione di venire in città e perdersi la partita di pallavolo organizzata dagli animatori, mi chiede se alla farmacia posso comprargli del colorante per i capelli. Gli sembra  una cosa normale. Me lo domanda come se ci trovassimo a Berlino, a Londra, in una qualsiasi città occidentale. Prendo i soldi e salgo. L’autista mi saluta senza voltarsi, siamo solo noi due, a nessuno degli altri clienti interessa vedere Hurghada, sono tutti presi dal torneo di pallavolo, dalle immersioni, dalla soffice e impalpabile sensazione di essere scivolati nel limbo della de-responsabilizzazione. Sette giorni in cui possono essere riveriti e coccolati, sette giorni in cui possono permettersi battute sguaiate sulle cosce dell’animatrice bionda, offendere il personale locale, dire banalità su banalità, consapevoli che con i soldi in vacanza puoi fare e permetterti tutto.

La radio è a volume sussurrato, il furgone parte. Venti metri di rettilineo fra le palme da dattero, alla casupola un assonnato ragazzino alza la sbarra e ci troviamo in una strada ricoperta dalla polvere che passa in mezzo a rocce e deserto, un deserto bianco e sporco, dove le lattine di bibite e i sacchetti neri di plastica formano ammassi disgustosi qua e là. Apro il finestrino e l’aria secca mi entra in gola. Andiamo forte, fortissimo. La vista del mare è impedita da colline sassose, aride.

L’autista alza il volume della radio. Una canzone araba con basi campionate in una dozzinale imitazione di brutta musica europea. Chiedo di abbassare, lui ride. Cerco di accendere una sigaretta, attraverso lo specchietto vedo i suoi occhi che disapprovavano. Rimetto la sigaretta nel pacchetto e guardo fuori.

Siamo su un rettilineo, le montagne si sono allontanate all’orizzonte, in primo piano baracche di lamiera, un uomo scuro che cammina sul ciglio della strada, un furgone verde scassato occupato da almeno sette persone adulte e tre bambini. Si vede il mare blu, lucente, perfetto. Si vedono i primi alberghi fatiscenti che deturpano il paesaggio. L’Aladin Hotel, rosa confetto, fra altre due costruzioni abbandonate, lasciate a metà, lasciate ai poveri che ci dormono. Il Makady Hotel, azzurro e giallo, costruito come un ranch texano, due giapponesi ne stanno uscendo in sella ad una grossa moto.

Guardo davanti, il posto di blocco. Confine fra il distretto di Safaga e quello di Hurghada. Su una torretta un esile soldato imbraccia, con pugno tremante, il suo mitragliatore. Di fianco alla torretta c’è una casa ad un solo piano, di muratura povera; la porta è spalancata e dentro un grassone in jeans è seduto ad una scrivania a guardare la televisione.

I due militari che controllano il nostro furgoncino mi osservano ridacchiando, hanno vent’anni, portano baffetti radi e stupidi elmetti in testa.
Ripartiamo con una sgommata.
Ancora deserto sporco di pubblicità non degradabili, cartelloni stradali in inglese e arabo con nomi di hotel, ristoranti, locali per turisti.

Il mare sfregiato dalle costruzioni dei verdi, gialli, rossi villaggi turistici, una curva, una barca da pesca lasciata in un vicolo sterrato a bloccare il traffico, un dedalo di viuzze sporche, motorini, bambini che chiedono la carità, e ancora uno stradone impolverato percorso da decine di pulmini scarburati, case lasciate lì a marcire, costruite fino al primo piano e poi abbandonate, odore di mafia, scritte politiche, cartelli politici, in fondo alla strada la moschea.
Scendo

C’è una lunga fila di negozi di souvenir, tappeti, magliette, maschere da sub, narghilè.

Entro nella città vecchia, nel quartiere di Sakkala. Un anziano rinsecchito, su un carretto trainato da un mulo, urla qualcosa alla strada. Compro dolcetti in un market dove la merce è esposta per terra, su panni di tessuto marrone. Dalla macelleria escono sciami di mosche. Passano turisti abbronzati, qualche militare vestito di bianco.

Nell’antro di una casa sventrata, terra di nessuno, dormono due anziani.

Odore si smog e di carne marinata.

Dei bambini vestiti di stracci colorati vengono scacciati da un venditore di paccottiglia. Il grasso e sudicio venditore ne acchiappa uno, avrà sì e no otto anni e una faccia furba, il venditore lo riempie di calci. Nessuno interviene. Io mi volto dall’altra parte e mi incammino verso il moderno centro commerciale di Dahar. Per terra c’è la carcassa di un grande topo, schiacciato dal traffico e dai piedi dei pedoni.

Hurghada, che fino a venticinque anni fa era un semplice paese di pescatori, si è trasformata in una specie di “mercato di frontiera” per i turisti occidentali. Nemmeno gli attentati nel Sinai e quelli a Luxor sono mai riusciti a fermare la marea de-responsabilizzata. La nuova mafia russa contribuisce dando ai turisti quello che molti imprenditori locali, più per paura che per decenza, non osano dargli: donne e alcol.

Trovo la farmacia, la commessa, una donna grassa con un neo bitorzoluto sotto il labbro inferiore, non sembra affatto sorpresa della mia richiesta. Mi mette sul tavolo una fialetta verde con bianche scritte arabe e mi dice in inglese che sono dieci pounds egiziani. Il turista tedesco che mi ha commissionato lo schiarente sarà felice. Adesso sarà in spiaggia a giocare a pallavolo, insieme agli altri veterani della vacanza organizzata. Felici di essere complici e schiavi dei tour operator, di partecipare in forma attiva all’incremento delle strutture turistiche, all’infossamento delle vecchie tradizioni locali.

Esco nel sole, qualcuno mi ferma per vendermi non so cosa. Due, tre persone. Mi parlano in dialetto locale, vogliono mercanteggiare. Ho in mano una confezione di bastoncini di incenso profumato e altri cinque pounds in meno.

Cammino e cammino, ai tavoli dei bar gli uomini seduti su bassi sgabelli giocano a tawla e fumano la shisha. Intorno a loro passeggiano i turisti coi loro corpi depilati e pallidi, le loro polo di marca, i bermuda multi-tasche, i pull a coste. Gli avventori dei bar li ignorano. Si lasciano fotografare mentre aspirano dalle lunghe cannucce o spostano una pedina della tawla.

Davanti a McDonald’s, aperto ad ogni ora per assecondare le voglie alimentari dei turisti europei ed americani, c’è una banda di gatti randagi. Sono magri, scheletrici. Hanno il pelo arruffato e pustole rugose dietro alle orecchie. Girano in cerchio, attendono. Lo stomaco implorante, gli occhi trasparenti. Un turista grasso stacca un pezzo di carne dall’hamburgher che sta mangiando e lo lancia nel mucchio. I gatti si accaniscono sulla preda inanimata. Soffiano. Si graffiano.

Mi guardo in giro, accecato dalla canicola e dallo smog: la città di Hurghada, un inferno di sporcizia e puzza escrementizia a due metri dal mare più bello del mondo, a qualche chilometro dalla baia di Abu Makhadeg, un paradiso di rocce, sabbia, corallo e acqua chiara, sempre più soffocato dagli alberghi, dai rifiuti, dall’arroganza.

Per una strada a fondo chiuso, dopo essermi perso altre sei o sette volte nella piccola parte vecchia del quartiere di Sakkala senza aver trovato il centro commerciale, ma con in tasca incenso profumato e una strana sostanza per decolorarsi i capelli, incontro una banda di ragazzetti poveri. Distribuisco l’incenso alle mani tese. Sembro il Sai Baba. Ma loro vogliono monete, cibo. Devo indietreggiare. Un claxon suona, mi batte forte il cuore, corro via, inseguito dai bambini che ancora reclamano doni più consistenti.

L’autista al posto di guida sta ancora suonando il claxon. Quando lo raggiungo mi informa con voce stizzita che siamo in ritardo e che al villaggio turistico un sacco di gente lo aspetta coi dollaroni in mano per farsi portare a destra e a manca. Me lo dice con invidia. Come se io, al mio Paese, non sia costretto a sudare sette camicie per intascare qualche dollarone. Ma l’autista ha ragione, io rappresento l’Occidente, rappresento colui che gli succhia il sangue.
Salgo dietro.
I bambini, con i loro rametti d’incenso stretto fra i pugni, corrono urlando dietro al furgone e poi il polverone sollevato dalle gomme li cancella dalla mia vista.

Davanti deserto, deserto sporco.

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